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Artificio e natura: la reciprocità contingente

Gianpiero Alfarano

La relazione tra Artificio e Natura ha sempre goduto di una sorta di rivalità, come nel dualismo platonico tra mondo sensibile e mondo delle idee. Ma la storia dell’uomo e quello dell’artificiale si sovrappongono. L’artificiale si può intendere profondamente umano.

Nell’era dell’ambiguità a cui viene sottoposta l’intelligenza arrivando ad essere estesa agli algoritmi chiamati enfaticamente “Intelligenza Artificiale”, il rapporto tra Artificio e Natura si presenta altrettanto ambiguo. Il primo interrogativo da porsi è fondato sul capire la necessità o meno del permanere di una obbligata distinzione. A partire dal metodo riduzionista del dualismo ontologico di Platone in cui la contrapposizione tra il mondo sensibile e il mondo delle idee induceva corrisponza al dualismo antropologico tra corpo e mente, il metodo della contrapposizione, piuttosto che apportare distinzione esplicativa, ha prodotto separazione speculare in molti casi più concettuale che reale. La relazione tra Artificio e Natura ha goduto da sempre di uno stato di perseverante antagonismo. Una sorta di rivalità, di compiaciuta prevaricazione.

Nella cultura del progetto la separazione è stata assunta dalla dualità forma e materia. La forma come dominante. La materia come subordinata. In questa prospettiva il progetto con l’adozione della téchne, ossia delle cosiddette opere di ingegno, agisce sulla forma che a sua volta agisce sulla materia. Se quindi all’Artificio si attribuisce la manipolazione della forma, alla Natura si recluta il ruolo di fornire la materia. E questo per molto tempo ha funzionato nel distinguere cosa definire Artificio, ossia l’intervento a carico dell’umano e cosa invece sia Natura, ossia la fornitrice delle sostanze primarie con cui operare. Questo non solo ha portato a ritenere che l’opera dell’uomo potesse servirsene della Natura a suo piacimento, ma che la Natura avesse risorse illimitate e che ogni sottrazione fosse irrilevante rispetto al sistema complessivo di fornitura ritenuto incoscientemente ricco e abbondante.

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Al giorno d’oggi e con catastrofiche conseguenze ci si è accorti che questo tipo di categorizzazione non trova più corrispondenza non solo nella considerazione dello stato realistico delle cose, ma soprattutto nella riconoscibilità della distinzione. L’avvento del digitale, l’espansione ad ogni livello dell’iperconnessione e dell’iperconsumo di beni e servizi ci ha catapultati in un’epoca in cui ogni operosità umana e soprattutto la costruzione degli oggetti fisici è ampiamente rilevante e talmente sofisticata che ciascuno dei dettagli e ogni minima caratteristica non può essere trascurata dalle impostazioni che assolvono a criteri progettuali consapevoli. L’inquinamento delle merci, lo spreco delle risorse, l’edulcorazione della percezione e molto di altro della postmodernità vanta un carattere di presunzione che induce il progetto a porsi a capo di un processo che simuli in maniera mimetica la Natura. Nulla a che vedere con quel processo di osmosi che la Natura in sé sa applicare diffusamente. Estrarre da essa e con essa confondersi sembra l’ultima versione dell’agire secondo prescrizioni ecologiche. Un’ennesima versione del ruolo di progettista estrattore che esula da ogni dipendenza di reciprocità. Difficile in questa inerzia distinguere la sostanza dalle apparenze. Nei cambiamenti repentini ed esperienziali in cui ci troviamo, la credibilità si gioca sull’adeguatezza di questa nuova realtà alle sollecitazioni innescate dall’onnipresente iconosfera. Immagini che rimandano ad altre immagini. Superfici che rimandano ad altre superfici senza nessuna necessità di coerenza o appartenenza ad uno scopo se non quello di suscitare curiosità.

Le superfici degli oggetti e degli ambienti, quindi, non vengono più costruite come presenze inerti anzi la loro accresciuta energia cinetica le rende attive, sensibili, mutanti se non addirittura invadenti.

La “superficialità” diventa così un contesto di pensiero visivo che certifica la smaterializzazione delle cose e pone diretta corrispondenza con le ricadute comportamentali che si ricavano conseguenzialmente dall’acquisizione di informazioni provenienti dallo strato epiteliale degli artefatti umani. In questo, la comunicazione che avviene attraverso le superfici, per mezzo delle tecniche di finitura dei materiali e la loro presentazione con un’appropriata accuratezza cromatica assume un ruolo fondamentale nel trasferire conoscenza.

Con il cambiamento repentino dei paradigmi di riferimento adottati fino a poco fa, si vanno dissolvendo nozioni che ci hanno aiutato a definire concetti ritenuti termini di paragone influenti su qualsiasi processo.

Oggi non solo è difficile trovare una giusta collocazione ai significati dei termini di Artificio e di Natura, ma risulta discriminante quanto evanescente poter trovare la giusta definizione di concetti come Identità, Originalità, Verità e perfino Memoria. L’autentico non ha più definizione in sé, ma è sempre più dipendente dal termine di comparazione a cui si riesce a porlo in dialettica. Tra Artificio e Natura l’apparente confronto predisposto alla distinzione su basi dialettiche ha finito per sbilanciare la condizione di reciprocità a favore di una prevaricazione intesa come oppressione conflittuale.

Nella cultura dell’industrialesimo di oggi, la definizione “artificio”, in qualsiasi attribuzione si utilizzi, si polarizza verso un significato di negatività. Una delle prime connotazioni che assume è quella di un’espressione che si riferisce a qualcosa di falso, nella migliore delle accezioni si posiziona a definire qualcosa che possa dare significato ad un surrogato di verità o di qualità che apparterrebbe ad altro. L’altrove si concentra sugli aspetti che si stabilizzano nella versione della “naturalità”: cibi naturali, materiali naturali, processi naturali, comportamenti naturali. Tutto questo nel linguaggio corrente sembra funzionare e funzionare bene attraverso l’innesco tendenzialmente accettato della polarizzazione contraddittoria tra artificiale e naturale. Ma se si riflette meglio e si cerca di dare un significato più corposo e più legittimo a questi due termini ci si accorge che questa polarità non solo non fa chiarezza, ma addirittura complica e confonde le verità di cui vorremmo nutrirci.

Ancora oggi vengono impiegati strumenti culturali obsoleti, come vero/falso, autentico/imitato nati nella lotta del diverso versus uguale riconducibile alla fase dell’opposizione critica alla massificazione, conseguenza reattiva alle proliferazioni industriali. Oggi nella condizione dell’industrialesimo pervasivo, affermandosi come unica direttiva planetaria, ha ancora terreno di appoggio la pratica antagonista solo perché è condizionata e soggetta all’omologazione di massa della semplificazione per opposti. Ma se per convenzione linguistica chiamiamo artificiale ciò che è prodotto dall’uomo, cioè l’attività tecnica guidata dalla cultura e non dalla biologia, così come era già nella concezione greca, la storia dell’uomo e quella dell’artificiale si sovrappongono. L’artificiale si può intendere profondamente umano. E se il confronto tra Artificio e Natura avvenisse come dovrebbe mettendo in evidenza il valore della relazione, la dipendenza escluderebbe la dominanza, la prevaricazione e ogni altra negatività. Sotto quest’ottica nessun valore viene classificato come assoluto e ad essere rilevante è la reciprocità. Avendo un termine di riferimento, qualcosa ha valore rispetto a qualcos’altro e l’apprezzamento viene distribuito ai due ciascuno per quel che di sé può dare al meglio per lavorare sul contributo vantaggioso dello scambio. Ecco messo in atto il valore contingente della reciprocità.

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