Finiture Green

Tra artigianato e industria, nuovi stimoli per le superfici

Patricia Malavolti

La cultura e l’economia italiana hanno nella produzione artigiana un elemento distintivo e riconosciuto globalmente; non stiamo parlando di “fatto a mano”, che è più vicino al mondo dell’autoproduzione, dell’hobbistica – anche se la manualità partecipa sicuramente al processo produttivo – ma di una produzione artigianale che punta sull’innovazione e sulla creatività, strettamente legata alla competitività dell’industria. La produzione artigianale è anche anello imprescindibile di filiera, essendo la parte flessibile e dinamica dei processi industriali, spesso l’elemento che li rende riconoscibili nel mondo.
È ciò che rende caratteristico il made in Italy ma si sta diffondendo anche in altri paesi, spinto dal consumatore che sta rivedendo le proprie priorità sugli acquisti, “meno ma meglio”.

Rispetto al passato, dove vi era una netta distinzione tra ciò che era produzione industriale, caratterizzata dalla ripetibilità dei processi, dalla standardizzazione e dai numeri, ora i due mondi si sono avvicinati per soddisfare alcune esigenze del mercato: oltre alla flessibilità, che abbiamo visto, anche la personalizzazione e la cura del dettaglio, senza dimenticare la qualità finale.

In Italia questa tradizione di produrre artigianalmente con un approccio industriale affonda le radici nel glorioso periodo post bellico della seconda metà del secolo scorso, dove imprenditori “illuminati” venivano investiti dalla creatività e genialità di alcuni architetti (allora non esistevano i designer) come Gianfranco Frattini, di cui ci parla in queste pagine la figlia Emanuela, curatrice di una bellissima recente mostra organizzata proprio al centro della zona che ha visto nascere il design italiano conosciuto in tutto il mondo: la Brianza.

Le finiture giocano in questo rapporto tra industriale e artigianale ruolo da protagoniste: è innegabile che siano il fattore che consente la protezione e quindi la durata nel tempo, la bellezza quando al centro c’è la ricerca della qualità, la personalizzazione quando si sfrutta la creatività e la flessibilità. Pur essendo un fattore decisamente importante non ha ancora una propria identità: tranne alcuni sporadici casi, sia in Italia che in altri paesi europei, le tecnologie per i rivestimenti e il CMF design non ricoprono il ruolo che meritano.

I motivi sono molteplici ma, sostanzialmente, riconducibili all’organizzazione delle filiere: il settore produttivo che se ne occupa è polverizzato in moltissimi differenti micro ambiti, non avendo una visibilità coesa. Se si considera infatti come una grande e unica famiglia quella dei rivestimenti, dove possiamo annoverare ceramiche, tessuti, pitture e vernici, materiali polimerici, semilavorati a base legno, carte da parati, e, insomma, tutto ciò che “riveste” uno spazio, un’oggetto, un ambiente, è facilmente percepibile quanto queste influiscano sul risultato finale della produzione, sia essa industriale oppure artigianale e degli spazi.

Pur essendo un macro settore cruciale, almeno in Italia non ci sono scuole che costruiscano una figura professionale che sia in grado di posizionarsi tra la fase progettuale e quella realizzativa, apportando competenze specifiche, delle “soft skill” in grado di contribuire con energie materiali e immateriali a definire interventi che possono cambiare il modo di percepire le finiture, spesso sottostimate o lasciate all’ovvietà. Ci ha pensato l’Università di Firenze, DIDA Design Campus, che ha organizzato il primo master “Sensibility Design”, il cui scopo è quello di preparare una figura professionale in grado di progettare le superfici ed essere “medium” tra le innovazioni tecnologiche e il progetto. Una figura professionale che tutte le aziende che si occupano di superfici dovrebbero annoverare tra i propri collaboratori.

Ci vediamo in autunno a Firenze!

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